Il 26 febbraio è l’anniversario della battaglia di Benevento (1266), nella quale trovò la morte Manfredi di Hohenstaufen, conosciuto anche come Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia (1232-1266),
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ultimo sovrano svevo del Regno di Sicilia, figlio dell’Imperatore Federico II e zio di Corradino di Svevia.
Ho già accennato a Manfredi parlando di Constance de Hauteville (Costanza d’Altavilla)
www.bitoteko.it/esperanto-vivo/2019/11/27/costanza-daltavilla/
e di Corradino di Svevia.
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Il corpo di Manfredi, caduto combattendo eroicamente contro i francesi di Carlo I d’Angiò, fu sepolto in un primo tempo sotto un mucchio di pietre “in co del ponte presso a Benevento”; ma sette mesi dopo il Vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, con il consenso di papa Clemente IV, lo fece riesumare, e trasportare fuori dei confini del Regno di Sicilia, in una località rimasta sconosciuta, nei pressi del fiume Verde (oggi, Garigliano): questo perché Manfredi, in vita, era stato scomunicato (per motivi politici, in quanto si opponeva al Papato, il quale pretendeva di avere il diritto di scegliere i Re di Sicilia).
Dante Alighieri ha immortalato Manfredi nel canto III del Purgatorio, presentandolo con grande pietà: il poeta, che evidentemente non condivideva il vilipendio del cadavere (ed, ancor di più, contestava le pretese papali), immagina che Manfredi si sia pentito all’ultimo istante, ed abbia quindi trovato la misericordia divina, quella misericordia che invece non aveva ottenuto dagli uomini di chiesa.
Trascrivo il brano della Divina Commedia (Purgatorio III, 103-145), in italiano e in una delle traduzioni in Esperanto, quella di Giovanni Peterlongo; allego un particolare di un disegno di Sandro Botticelli (1445-1510), tratto dall’edizione in Esperanto della Divina Commedia, Le Monnier 1963, p. 235.
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
105 pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
108 ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
111 e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
114 ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
117 e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
120 piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
123 che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
126 avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
129 sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
132 dov’ e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
135 mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
138 star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
141 più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
144 come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».
Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio III, 103-144
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Kaj unu ekis: «Kiu ajn vi estas,
tiel irante, turnu la vizaĝon:
105 atentu, ĉu en mondo vi min vidis».
Mi turnis min kaj lin rigardis fikse:
aspektis blonda li, ĝentila, bela,
108 sed unu frapo lian brovon fendis.
Post kiam mi certigis respektege,
ke lin ne vidis mi, li diris: «Vidu»,
111 kaj montris supre ĉe la brust’ cikatron.
Kaj kun ridet’: «Jen estas mi Manfredi,
nep’ de Konstanca imperiestrino;
114 tial, mi petas, post reveno iru
al mia bela filin’, kiu naskis
gloron de Aragon’ kaj Sicilio;
117 raportu veron, se alion oni.
Post kiam du mortigaj vundoj korpon
mian traboris, mi kun plor’ min donis
120 al Tiu, kiu kun bonvol’ pardonas.
Abomene mi pekis, sed Boneco
senfina havas tiel grandajn brakojn:
123 ĝi ĉion prenas, kio al ĝi fuĝas.
Se de Kozenca la pastist’, por ĉasi
min de Klement’ sendita, tiam legus
126 ĉe Dio bone jam ĉi tiun paĝon,
ankoraŭ la ostar’ de l’ korpo mia
ĉe l’ ponta kapo apud Benevento
129 estus, sub pezo de l’ amaso ŝtona;
nun malsekigas pluvo, movas vento
ĝin, de la regno for, preskaŭ ĉe l’ Verde,
132 kien li ĝin trasportis sen lumado.
Oni ne perdas pro malben’ ilia
l’ eblon, ke la eterna Am’ revenos,
135 dum iomete la esper’ verdiĝas.
Tamen, en anatemo kiu mortas
de Sankta Eklezio, kvankam fine
138 li pentas, ekster jena bordo restas
tridekoble la tempon pasigitan
en la malhumileco, se l’ dekreto
141 per bonaj preĝoj ne pli mallongiĝas.
Do vidu, ĉu vi povas min ĝojigi,
dirante al Konstanca mia bona
144 kiel min vidis vi, kaj l’ interdikton;
mondanoj povas nin tre progresigi».
Dante Alighieri, Dia Komedio, Purgatorio 3-a, 103-144
Trad. Giovanni Peterlongo, Le Monnier 1963, p. 238-239