Il 21 aprile 2019 è il Sabato Santo, una sorta di ponte tra il Venerdì Santo, in cui si ricorda la morte di Gesù Cristo, e la Domenica di Pasqua, in cui si celebra la sua Resurrezione.
Nel Sabato Santo dominano il silenzio, il raccoglimento e l’oscurità (le chiese rimangono nel buio totale), tanto che neppure viene celebrata la Messa (per questo, questo giorno è definito “aliturgico”, cioè privo di liturgia), in attesa del lieto annuncio della Resurrezione.
Quanti giorni rimase Gesù nel sepolcro?
Può sembrare strano che la risposta sia “tre giorni”, dato che la morte avvenne nel primo pomeriggio del venerdì, e la Resurrezione presumibilmente all’alba del giorno successivo al sabato (che poi i cristiani avrebbero chiamato in latino “Dominica dies”, cioè “Giorno del Signore”, “domenica” in italiano, “domingo” in spagnolo, “dimanche” in francese, “dimanĉo” in Esperanto ecc.).
In totale, quindi, si trattò di circa 40 ore, da cui la pia pratica delle “Quaranta Ore” di adorazione eucaristica; ma sono tre giorni (sia pure non completi) secondo il metodo di calcolo ebraico, per il quale il giorno iniziava al tramonto (metodo che è stato conservato nella liturgia cattolica, in cui la Messa del sabato sera, detta “vespertina”, è considerata domenicale).
Dal XVI secolo alla riforma liturgica disposta (1963) dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la prassi era quella di anticipare alla mattina del sabato lo “scioglimento” delle campane, che erano rimaste “legate”, cioè inattive, dalla sera del giovedì; questo perché era sconsigliato celebrare di notte, dato che era pericoloso circolare dopo una certa ora (dove si vede che non è sempre giustificata l’idea di un “buon tempo antico”). Adesso, invece, lo scioglimento avviene durante la Veglia pasquale, nella notte tra il sabato e la domenica, per cui sarebbe contento il popolano protagonista dei Sonetti del poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863),
il quale così si scandalizzava per due prassi, la prima delle quali tuttora in uso:
– chiamare “Sepolcri” gli altari su cui il giovedì si ripone l’Eucaristia: l’equivoco nasce dalla storpiatura popolare della parola dotta “Reposizione” (cioè, l’atto di riporre, conservare), interpretata erroneamente come “Deposizione” (cioè, il calare dalla Croce);
– l’anticipazione al sabato mattina dei riti della Resurrezione pasquale:
1144. Le funzione de la sittimana-santa (29 marzo 1834)
Io sempre avevo inteso predicà
ch’er Zignore era morto un venardì,
e che doppo tre giorni che morì
vorze (1) a commido suo risuscità.
Com’è st’istoria? E adesso vedo qua
schiaffallo (2) in zepportura er giuveddì,
e ’r giorn’appresso lo vedo ariarzà (3)
sopr’a la croce e aripiantallo (4) llì!
E ’r zabbit’ (5) a mmatina, animo, su:
s’arileva (6) a l’artari er zabbijjè,(7),
se canta er Grolia (8), e nun ze piaggne piú.
Queste sò ttutte bbuggere c’a mmé
me
pareno resíe (9), perché o nun fu
come se dice, o s’ha da fà com’è.
(1) Volle. (2) Cacciarlo. (3) Rialzare. (4) Ripiantarlo. (5) Sabato. (6) Si rileva. (7) Il déshabillé. (8) Gloria. (9) Eresie.
Un altro equivoco di natura linguistica riguarda il “Credo” recitato nel periodo prepasquale, che non è l’abituale “Credo Niceno-Constatinopolitano”, in cui si dice:
crucifíxus etiam pro nobis sub Pontio Pilato,
passus et sepultus est,
et resurrexit tertia die,
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
mori e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato.
In quel periodo, infatti, si recita il “Credo apostolico”, che dice:
passus sub Pontio Pilato,
crucifixus, mortuus, et sepultus,
descendit ad inferos,
tertia die resurrexit a mortuis.
patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso,
mori e fu sepolto; discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte.
Ebbene, mentre la versione italiana più recente (valida oggi) traduce correttamente “descendit ad inferos” con “discese agli inferi” (cioè, nel mondo sotterraneo dei morti), in passato si usava la formula “discese all’Inferno” (cioè, il luogo della dannazione). Si comprende, quindi, perché il solito popolano di Giuseppe Gioachino Belli si scandalizzasse anche di questo:
2145. Una biastéma (1) der Credo
Sto a penzà come er Credo, sor Emijjo,
dichi che Gesucristo annò a l’inferno.
È possibbile mai ch’er Padr’eterno
ce volessi mannà propio su’ fijjo!
Ma lo sapete co chi me la pijjo?
Me la pijjo co quelli der Governo,
che metterno sto scànnolo (2), metterno,
senza nemmanco dimannà conzijjo.
Gesucristo a l’inferno! E s’è mai visto,
da sì che (3) celo è celo e monno è monno,
un galantomo più de Gesucristo?
Si (4) poi sta cosa, s’abbi da credella,
pò èsse forzi (5) che in quello sprofonno
ar più ciaverà fatto capoccella (6).
(1) Bestemmia. (2) Misero questo scandalo. (3) Dacché, sin da quando. (4) Se. (5) Può essere forse. (6) Capolino.
Ma di questo parlerò in dettaglio un’altra volta.
Allego l’immagine di un mosaico della Basilica di San Marco a Venezia, con Gesù Cristo che, sceso agli Inferi, libera le anime dei giusti, cominciando da Adamo.