Personaggi

Sissi

Il 10 settembre è l’anniversario della tragica morte (nel 1898) di Elisabeth Amalie Wittelsbach, Herzogin in Bayern (in italiano, Elisabetta di Baviera o Elisabetta d’Austria-Ungheria) (1837-1898)

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sposa (nel 1854, a 17 anni) di Franz Joseph I von Österreich (Francesco Giuseppe d’Austria) (1830-1916)

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la quale fu (tra l’altro) Imperatrice d’Austria, Regina d’Ungheria, Regina di Boemia, Regina di Croazia, Signora di Trieste.

È generalmente (ma impropriamente) conosciuta come “Sissi” o “Principessa Sissi”, a causa dei tre film di Ernst Marischka con quel nome degli anni 1955-1958 (interpretati da Romy Schneider): “Sissi (La principessa Sissi); “Sissi, die junge Kaiserin” (Sissi, la giovane Imperatrice); “Sissi, Schicksalsjahre einer Kaiserin” (Sissi, destino di un’Imperatrice); nel 1972 Romy Schneider interpretò nuovamente l’Imperatrice Elisabetta nel film Ludwig di Luchino Visconti.

In realtà, tra i numerosissimi titoli nobiliari di Elisabeth quello di Principessa riguardava soltanto la Transilvania, Trento e Brixen/ Bressanone; ed il nome era “Sisi” con una sola esse (in effetti, il museo a lei dedicato nella Hofburg di Vienna si intitola “Sisi Museum”).

Di animo sensibile, amante della natura, insofferente di formalismi, immune da orgoglio aristocratico, Elisabetta si trovò a disagio quando entrò alla Corte di Vienna, dove invece vigeva una rigida etichetta, e il governo dell’Impero era gestito in modo autoritario.

Del resto, in occasione di un viaggio ufficiale nel Lombardo-Veneto (all’epoca sotto dominazione austriaca), Elisabetta si rese conto che non tutte le popolazioni dell’Impero multietnico amavano la casa d’Asburgo: a Venezia, ad esempio, in piazza San Marco la coppia imperiale fu acclamata soltanto dai soldati austriaci, mentre i veneziani rimasero in silenzio; ed anche in Ungheria fu accolta con freddezza.

Momenti difficili furono: la morte di una figlia; la disfatta austriaca del 1859 nella seconda guerra d’indipendenza italiana (Battaglia di Solferino e San Martino)

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la caduta nel 1860 del regno delle Due Sicilie ad opera dei Mille di Giuseppe Garibaldi

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(l’ultima Regina delle Due Sicilie, Marie Sophie Amalie von Wittelsbach Herzogin in Bayern, in italiano Maria Sofia di Baviera

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moglie dell’ultimo Re Francesco II di Borbone

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era sorella di Elisabetta di Baviera).

Elisabetta cadde in una profonda depressione, anche per le notizie di infedeltà del marito, e si ammalò gravemente (di una malattia rimasta misteriosa, probabilmente anoressia di origine psichica); si allontanò da Vienna, stabilendosi come Regina a a Gödöllő in Ungheria, che lei prediligeva.

La sfortuna non cessò di perseguitarla: nel 1889 il figlio Rodolfo (Kronprinz, erede al trono)

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si uccise a Mayerling insieme all’amante, la baronessa Maria Vetsera.

it.wikipedia.org/wiki/Maria_Vetsera

Elisabetta portava ancora il lutto per il figlio quando, nel settembre 1898, si recò in incognito a Ginevra. Il 10 settembre 1898, sul lungolago, sebbene avesse il volto semicoperto da una veletta, fu riconosciuta (grazie a una delazione) dall’anarchico italiano Luigi Lucheni

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che la pugnalò a morte con una lima. Quando gli fu domandato il motivo del suo gesto, dicono che Lucheni abbia risposto: «Perché sono anarchico. Perché sono povero. Perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi».

La cosa singolare è che, invece, Elisabetta non approvava le disparità sociali ed economiche, detestava le ricchezze e i viaggi di piacere, non amava la dinastia degli Asburgo, e sperava che Francesco Giuseppe abdicasse per andare a vivere con lei a Ginevra (invece Francesco Giuseppe rimase Imperatore fino alla morte nel 1916, stabilendo un record di durata).

È sconvolgente, poi, constatare quello che Elisabetta aveva scritto nel suo diario, quasi avesse un presentimento: si augurava di morire “improvvisamente, rapidamente e se possibile all’estero”.

In occasione della tragica morte di Elisabetta, il poeta italiano Giovanni Pascoli (1855-1912)

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scrisse il ciclo poetico “Nel carcere di Ginevra”. Non è certo tra le opere migliori di quel poeta (e difatti è poco conosciuto); ma ne trascrivo il testo, in italiano, e nella traduzione in Esperanto di Giordano Azzi (tra parentesi: Lucheni, condannato all’ergastolo, morì in carcere dieci anni dopo, in circostanze non chiare, forse per suicidio).

A Trieste, di cui era “Signora”, Elisabetta è ancora adesso molto amata – come, del resto, molti personaggi della casa d’Asburgo:

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Nel 1912, grazie ad una sottoscrizione popolare, Trieste le eresse un monumento, rimosso nel 1921 a seguito dell’annessione della città all’Italia, e ricollocato nel 1997 nella piazza antistante la stazione centrale; ne allego una bella foto notturna, fornita da Edvige Tantin Ackermann.


NEL CARCERE DI GINEVRA

 

I

… Dormi, – parlò – figlio dell’uomo ignoto?

dal tuo delitto erri lontano? hai morso,

per non tornarvi, al dolce fior del loto?

 

Dormi? oh! lontano tu sei già trascorso.

Nel sonno oscuro il tuo pensier calpesta

suolo senz’eco e vie senza rimorso.

 

Non m’odi? io pendo sopra la tua testa;

busso al tuo cuore taciturno e vuoto.

Sai chi ti chiama? sai chi ti ridesta?

 

Odimi: sono il padre tuo, l’Ignoto.

 

II

Son io che uccisi, forse; io non veduto;

sì; io che piango a capo del tuo letto

e che parlo nel tuo carcere muto.

 

Piangiamo insieme. M’odi? Eri un reietto,

un solitario nella dura via;

andavi senza pane e senza tetto

 

e senza nome; e della legge pia

non t’accorgesti che per le catene;

e la tua patria t’intimò: Va via!

 

anche tua madre, Va! Ti disse… Ebbene?

 

III

Eri – suprema gioia – eri innocente!

Potevi dir tendendo le tue braccia:

“Voi tristi, io buono; e voi tutto ed io niente!

 

Perché lo soffro, non perché lo faccia,

conosco il male; e voglio che non resti

del vostro male nel mio cor la traccia:

 

io v’amo!”. Eri innocente, eri dei mesti

di cui far bene è non dover, sì gioia:

eri la dolce vittima; volesti

 

essere… sciagurato, essere il boia!

 

IV

Qual tesoro di pianto non deterso

e non veduto, di superbo pianto,

hai con un’ebbra voluttà disperso!

 

Hai rinnegato quel dolor tuo santo,

che venne teco a tanta via, che pure

ti si sarebbe addormentato accanto!

 

Hai disertato dalle tue sventure!

Hai voluto tiranno essere e reo!

Perché l’hai tolto a qualche regia scure

 

il ferro per il tuo pugnal plebeo.

 

V

Tuo focolare era il dolor del mondo,

o senza tetto! Uscisti: il tuo pugnale

cercò, cercò, con odio vagabondo.

 

Ma tu dicevi, nell’andar fatale,

vedendo il pianto in ignorate ciglia:

“Tu mi sei sacro per il pane e il sale:

 

ave, infelice della mia famiglia!

Conosco il segno che non si cancella:

va!”?… No: con l’arma che gocciò vermiglia

 

passasti il cuore d’una tua sorella!

 

VI

D’un’infelice!… Oh! la sua reggia? Niuna

la invidiò, che presso il fuoco spento

pure ci avesse un tremolio di cuna.

 

Niuna il suo trono invidiò, che il lento

figlio aspettasse, tuttavia, lunghe ore,

nell’abituro battuto dal vento.

 

Niuna mutato il suo pur mesto cuore

col cuore avrebbe, che tu hai trafitto;

niuna, nel mondo in cui si piange e muore;

 

fuor che tua madre, dopo il tuo delitto!

VII

Or ella ha pace, e tu non l’hai: ti sento

gemere, o figlio. E sorge una lunga eco

nel cavo sonno al tacito lamento.

 

Tu non lo sai, quel sangue, più, nel cieco

errare: incontri i sogni che lo sanno;

ed un eterno calpestìo vien teco.

 

O nell’immoto sonno ombre che vanno!

Io piango, o figlio, sopra il tuo destino;

piango per ciò, che non t’uccideranno,

 

ti lasceranno vivere Caino!

 

VIII

Son io che uccisi forse; io che da’ lidi

lontani, senza disserrar le porte,

venni, e ti parlo; e piango, perché vidi.

 

Vidi dall’alto, vidi dalla morte:

da quel supremo culmine del vero

tra voi non vidi il grande, il ricco, il forte,

 

re, plebe. Vidi un formicolìo nero

di piccole ombre erranti per le dune,

e ne saliva dentro il cielo austero

 

un grido d’infelicità comune.

 

IX

Tutti mortali – oh! tu lo sai! lo vuoi!

c’è, mancando la gran falce, il pugnale

piccolo! oh! sempre si morrà tra voi! –

 

tutti infelici! Che se c’è chi sale

e chi discende in questo fiottar lieve,

l’acqua ritorna, con la morte, uguale.

 

E l’odio è stolto, ombre dal volo breve,

tanto se insorga, quanto se incateni:

è la PIETÀ  che l’uomo all’uom più deve;

 

persino ai re; persino a te, Lucheni.

 

Giovanni Pascoli

 

°°°°°

 

EN LA KARCERO DE ĜENEVO

 

I

Ĉu dormas vi, de l’ nekonato filo?

ĉu vi forvagas de la krim’? ĉu l’ floron

lotusan mordis, por la pekforŝiro?

 

Ĉu dormas vi? Vi kuris jam en foron.

En dorm’ malhela, via penso tretas

seneĥan teron, vojojn sen memoro.

 

Ĉu vi ne aŭdas? Super vi mi pretas;

mi frapas al kor’ via mute stata.

Kiu vin vokas kaj revekon petas?

 

Estas mi, via patro nekonata.

 

II

Mi mem mortigis, eble; ne vidata;

jes mi, ploranta nun, ĉe via lito

kaj parolanta en karcero fata.

 

Kunploru ni. Ĉu aŭdas vi? Pelito,

solulo estis vi, sur l’ akra voj’;

senpane iris vi, sen la hejmfido

 

kaj sen la nomo; kaj pri l’ leĝo, oj,

vi ekrimarkis nur pro la katenoj;

for! patrio via kriis, kvazaŭ boj’.

 

Eĉ panjo diris: iru!… nu, ĉagrenoj?

 

III

Ho pleja ĝojo – vi senkulpa estis!

Vi povis diri: “Aĉaj vi, mi bonas!

al mi nenio, al vi ĉio restis!

 

Ĉar mi suferas, mi malbonon konas,

ne ĉar ĝin faras; el malbono via,

en mia kor’ eĉ eĥo ne resonas:

 

mi amas vin!”. Vi senkulpulo pia,

al kiu bona far’ ŝajnus ĝoj’ multa,

la viktim’ dolĉa estis: volo via

 

ekzekutisto igis vin, ho stulta!

 

IV

Kia trezor’ de ploro neviŝita

kaj nevidita, de fiera ploro,

pro ebria volupto, iĝis splita!

 

La sanktan malrekonis vi doloron,

kiu dumvoje estis kun vi kune

kaj eĉ dormiĝus apud via koro!

 

De l’ malfeliĉoj vi dizertis nune!

Kulpul’ vi volis esti kaj tirano

ĉar el reĝa hakil’ vi premis dume

 

la feron por ponardo de plebano.

 

V

Hejm’ via estis la doloro monda

ho senhejmul’! Eliris vi; l’ armilo

traserĉis kun malamo vagabonda.

 

Ĉu diris vi, dum la fatala iro,

je l’ vid’ de nekonataj plorokuloj:

“Pro la pano kaj sal’, vi sankta viro:

 

saluton, ano de la mizeruloj!

la neviŝeblan signon mi rekonis:

iru!…”? Ne: per l’ armil’, kun ruĝmakuloj,

 

al koro de fratin’ vi pikon donis!

 

VI

De malfeliĉulin’! Palacon ŝian

nenia in’ enviis, kiu havas,

ja ĉe l’ morta fajruj’, lulilon sian.

 

Ŝia trono nenian inon ravas,

eĉ atendantan longe, streĉe, filon,

en la kaban’, sur kiu l’ vento trafas.

 

Nenia in’ eĉ ŝanĝus kordeliron

pere de l’ koro, kiun vi trapikis;

nenia, en ĉi mond’ de plortrairo;

 

krom panjo via, post ol vi mortigis!

 

VII

Ŝi ĝuas pacon nun, vi ne; mi sentas

vin ĝemi, fil’. Kaj longa eĥo venas

de l’ vaka dorm’, dum mute vi lamentas.

 

Tiun sangon, dum blinde vag’ vin trenas,

vi ne plu scias; nur la sonĝoj konas;

eterna tretobru’ vin loge tenas.

 

Tra l’ dorm’ senmova, ombroj kurfantomas!

Mi ploras, filo, pri via destino;

mi ploras tial, ke ne oni donas

 

morton al vi, sed vivos vi Kaino!

 

VIII

Mi mem mortigis eble; kaj rapidis

de for sen la malfermo de la pordo,

kaj vin parolas, plore, ĉar mi vidis.

 

Vidis dealte, vidis de la morto:

de la supera supro de la vero

mi ne vidis grandulojn, riĉon, forton,

 

reĝon, plebon. Vidiĝis aglomero

de etaj svarmaj ombroj sur la dunoj,

kaj supreniris la ĉielseveron

 

krio pro l’ malfeliĉaj sortkomunoj.

 

IX

Ĉiuj mortontoj – ho! vi scias! volas!

se mankas la falĉilo granda, estas

eta ponardo! ĉe vi morto floras! –

 

ĉiuj mizeraj! Se kelkiu estras

kaj iu subeniras en ĉi fluo,

l’ akvo, je l’ mort’, egala fine restas.

 

Stulta malam’: mallonga ĝia bruo,

ĉu por ribeli, ĉu por enkateni:

de la homa kompat’ regu l’ influo;

 

eĉ por la reĝoj, eĉ por vi, Lucheni.

 

Giovanni Pascoli, trad. Giordano Azzi

(el “Elektitaj poemoj de Giovanni Pascoli” – 1952)

 

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