Il 29 settembre è l’anniversario della morte (nel 1494) del poeta, umanista e filologo italiano (toscano) Agnolo (Angelo) Ambrogini (1454-1494), detto Poliziano dal nome latino del luogo di nascita (Mons Politianus, oggi Montepulciano in provincia di Siena).
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Ho già parlato di lui il 29 settembre 2017
e il primo maggio 2018.
Oggi trascrivo, in italiano e nella traduzione in Esperanto, un brano (“Lamento di Orfeo” – “Plendo de Orfeo”) dall’opera teatrale di Poliziano “La fabula di Orfeo”.
Il mito di Orfeo ed Euridice, esaltazione della potenza della musica e dell’amore coniugale, ha sempre affascinato poeti, scrittori, musicisti, pittori, scultori: tra i tanti, sono da ricordare almeno Ovidio (Metamorfosi), Virgilio (Georgiche), Seneca, Angelo Poliziano, Reiner Maria Rilke, Dino Buzzati, Claudio Monteverdi, Christoph Willibald Gluck, Joseph Haydn, Nicolas Poussin, Antonio Canova.
Secondo il racconto tradizionale, Euridice muore perché morsa da un serpente mentre cerca di sfuggire a un innamorato sgradito; il marito Orfeo, abile musicista e cantore, riesce a commuovere il dio dell’oltretomba, Ade (Plutone), e i terribili personaggi infernali (Caronte, Cerbero, le Furie), e ottiene di potersi riprendere la sposa, ma a patto di non voltarsi durante il cammino per tornare sulla terra. Orfeo, però, è così innamorato che non resiste, si volta, ed Euridice muore di nuovo e per sempre.
Ma non tutti coloro che si sono occupati di questo mito sono stai così romantici: nell’operetta “Orphée aux enfers” (Orfeo agli Inferi) di Jacques Offenbach (1819-1880), Euridice, una volta nell’Oltretomba, si innamora di Ade (Plutone), e quando Orfeo scende per salvarla, lei non ne vuole sapere di seguirlo, e dice:
“Bisogna che una buona volta vi dica il fatto vostro! Mio casto sposo, sappiate che vi detesto! Siete l’uomo più noioso del creato!”.
Orfeo ritorna, da solo, sulla terra, mentre negli Inferi tutti gli dei, che si sono trasferiti lì per godersi lo spettacolo, si abbandonano a un ballo sfrenato con Euridice: il ben noto “Can Can” finale.
Allego l’immagine di un rilievo di età augustea, copia di un originale greco del V secolo a. C., con Orfeo, Euridice ed Hermes (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).
LAMENTO DI ORFEO
Dunque piangiamo, o sconsolata lira,
che più non si convien l’usato canto.
Piangiam, mentre che ‘l ciel ne’ poli agira
e Filomela ceda al nostro pianto.
O cielo, o terra, o mare! o sorte dira!
Come potrò soffrir mai dolor tanto?
Euridice mia bella, o vita mia,
senza te non convien che ‘n vita stia.
Andar convienmi alle tartaree porte
e provar se la giù mercé s’impetra.
Forse che svolgeren la dura sorte
co’ lacrimosi versi, o dolce cetra;
forse ne diverra pietosa Morte
che già cantando abbiam mosso una pietra,
la cervia e ‘l tigre insieme avemo accolti
e tirate le selve, e ‘i fiumi svolti.
Pietà! Pietà! del misero amatore
pietà vi prenda, o spiriti infernali.
Qua giù m’ha scorto solamente Amore,
volato son qua giù colle sue ali.
Posa, Cerbero, posa il tuo furore,
che quando intenderai tutte e’ mie mali,
non solamente tu piangerai meco,
ma qualunque è qua giù nel mondo cieco.
Non bisogna per me, Furie, mugghiare,
non bisogna arricciar tanti serpenti:
se voi sapessi le mie doglie amare,
faresti compagnia a’ mie lamenti.
Lasciate questo miserel passare
ch’ha ‘l ciel nimico e tutti gli elementi,
che vien per impetrar mercé da Morte:
dunque gli aprite le ferrate porte.
Angelo Poliziano
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PLENDO DE ORFEO
Do ploru ni, ho liro sen espero,
ne taŭgas plu l’ antaŭa kanto bela:
ploru, dum giras la ĉiela sfero,
kaj je ĉi ploro cedu Filomela.
Ho kruda sort’, ho mar’, ĉielo, tero,
kiel rezisti je dolor’ tiela?
Ho Eŭridice bela, vivo mia,
sen vi ne eblas plu ekzisto ia.
Mi devas iri la tartaran pordon,
por tie sube kompatemon trovi;
aŭ per la larma vers’ la duran sorton,
ho dolĉa citro, eble turni povi;
por eble kompatema igi Morton,
ĉar ni, kantante, igis ŝtonojn movi,
cervon kaj tigron kune ni kolektis,
arbarojn tiris, fluojn fordirektis.
Kompaton al amanto senkonsola,
kompaton, ho spiritoj de l’ infero:
eskortis tien ĉi Amoro sola,
lia flugil’ min gvidis al subtero;
ĉesu, Cerber’, via kolero bola,
ĉar, kiam aŭdos vi pri ĉi sufero,
ne nur vi sola kun mi ploros nune,
sed ĉiuj el la blinda mondo kune.
Ne faru, ho Furioj, ĉi hululon,
ne svingu al mi tiom da serpentoj:
se vi konscius mian dolorbrulon,
kuniĝus ankaŭ vi al la lamentoj:
lasu trapasi jenan mizerulon,
batatan de l’ ĉiel’ kaj elementoj,
venantan peti pri kompato Morton:
al li malfermu do la feran pordon.
Angelo Poliziano, trad. Enrico Dondi
(“Itala Antologio”, COEDES/ FEI, Milano 1987, p. 138-139)