Teognide di Megara (in greco, Θέογνις ὁ Μεγαρεύς, Théognis ho Megareús)) fu un poeta greco della fine del VI secolo o dell’inizio del V secolo a. C.
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Visse anella città attica di Megara Nisea (in greco, Μέγαρα Νίσαια), in un periodo di grandi torbidi, prima (fino alla caduta del tiranno Teagene, in greco Θεαγένης, Theaghénes) per la lotta per la democrazia e i diritti civili, poi per la lotta di classe per l’uguaglianza economica. Privato dei beni ed esiliato (apparteneva all’aristocrazia), fu tra l’altro in Sicilia, dove forse (se così è da interpretare un passo di Platone (Νόμοι/ Leggi, I, 630 A) gli fu attribuita la cittadinanza di Megara Iblea (in greco, Μέγαρα Ὑβλαία), colonia greca derivata nelle vicinanze dell’attuale Augusta dalla Megara attica.
Più tardi, Teognide tornò in patria, ma non riebbe i beni confiscati.
Sembra che abbia scritto 2.800 versi; ma a noi ne sono pervenuti soltanto 1.389, e neppure si è sicuri che siano tutti suoi, perché nella raccolta che va sotto il suo nome (detta in latino “Corpus Theognideum”) sono incorporati frammenti di altri poeti; secondo alcuni studiosi, ad una base teognidea del VI secolo sarebbero stati aggiunti versi di cento anni dopo, ed un insieme di versi sapienziali del V secolo.
Si tratta della più cospicua raccolta di testi poetici greci; il suo successo (che ha consentito che giungesse fino a noi) è dovuto al carattere di raccolta di massime morali per la gioventù, utilizzata dagli educatori come un manuale, e fonte di espressioni divenute proverbiali.
L’incertezza sulla figura storica del poeta e sulla sua opera rende controversa la valutazione critica del suo pensiero; secondo le tesi più accreditate, Teognide trae dalla sua amara esperienza una concezione pessimistica della vita, sia in generale, che specificamente per quanto riguarda il moto inarrestabile della storia, che travolge le tradizioni, e fa tramontare il predominio dell’aristocrazia, a favore di una plebe insolente. La conseguenza è, che per Teognide, sarebbe meglio non nascere affatto, oppure varcare al più presto la soglia dell’Ade, tenuto conto che la giovinezza fugge inesorabilmente, e sono effimere le gioie del vino, dell’amore e della musica. Anche lo tormenta il problema del male, non facilmente conciliabile con l’onnipotenza e la bontà divina.
Trascrivo (in greco, nella traduzione italiana di Ettore Romagnoli, ed in quella in Esperanto di Kálmán Kalocsay), un frammento che ha dato origine alla frase latina “Spes ultima dea” (la Speranza è l’ultima dea).
A proposito di pessimismo: Ugo Foscolo (1778-1827)
lo ancora di più, dato che per lui
Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri
(De’ Sepolcri, vv 16-17)
Allego un francobollo vaticano del 1962 per l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, con l’immagine della Speranza, tratta da un dipinto di Raffaello Sanzio conservato nella Pinacoteca Vaticana (proveniente dalla chiesa di san Francesco al Prato di Perugia, trasferito in Vaticano quando Perugia faceva parte dello Stato Pontificio).
È opportuno precisare, però, che la Speranza greca non ha molto in comune con la Speranza cristiana, che si nutre anche di Fede; oppure, se si preferisce, la Fede si nutre di Speranza, come dice Dante Alighieri (Paradiso 24,64):
fede è sustanza di cose sperate
che traduce la Lettera agli Ebrei 11,1:
Est fides sperandarum substantia rerum (la fede è certezza di cose che si sperano).
Ἐλπὶσ ἐν ἀνθρώποισι
Ἐλπὶς ἐν ἀνθρώποισι μόνη θεὸς ἐσθλὴ ἔνεστιν͵ἄλλοι δ΄ Οὔλυμπόν<δ΄> ἐκπρολιπόντες ἔβαν·ὤιχετο μὲν Πίστις͵ μεγάλη θεός͵ ὤιχετο δ΄ ἀνδρῶνΣωφροσύνη͵ Χάριτές τ΄͵ ὦ φίλε͵ γῆν ἔλιπον·ὅρκοι δ΄ οὐκέτι πιστοὶ ἐν ἀνθρώποισι δίκαιοι͵οὐδὲ θεοὺς οὐδεὶς ἅζεται ἀθανάτους.εὐσεβέων δ΄ ἀνδρῶν γένος ἔφθιτο͵ οὐδὲ θέμισταςοὐκέτι γινώσκουσ΄ οὐδὲ μὲν εὐσεβίας.ἀλλ΄ ὄφρα τις ζώει καὶ ὁρᾶι φῶς ἠελίοιο͵εὐσεβέων περὶ θεοὺς Ἐλπίδα προσμενέτω·εὐχέσθω δὲ θεοῖσι͵ καὶ ἀγλαὰ μηρία καίωνἘλπίδι τε πρώτηι καὶ πυμάτηι θυέτω.φραζέσθω δ΄ ἀδίκων ἀνδρῶν σκολιὸν λόγον αἰεί͵οἳ θεῶν ἀθανάτων οὐδὲν ὀπιζόμενοιαἰὲν ἐπ΄ ἀλλοτρίοις κτεάνοις ἐπέχουσι νόημα͵αἰσχρὰ κακοῖς ἔργοις σύμβολα θηκάμενοι.
Θέογνις ὁ Μεγαρεύς
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La sola dea rimasta quaggiù fra i mortali, è Speranza:
ci hanno lasciati gli altri, sono ascesi all’Olimpo.
Partì la Buona Fede, gran Diva: partì la Saggezza
il Giuramento fido fra gli uomini più non si trova,
né più venera alcuno gl’immortali celesti.
Spenta è la razza degli uomini pii: né più alcuno rispetta
né le leggi degli uomini, né i decreti divini.
Ma sinché vive, sinché vede ognuno la luce del sole,
verso gli dei si mostri poi, la Speranza onori,
e, preci offrendo ai numi, bruciando a lor femori pingui,
sacrifichi a Speranza, prima ed ultima Diva.
E dagli obliqui discorsi degli uomini iniqui si guardi,
che, senza avere mai riguardo agli Immortali,
ai beni l’un dell’altro rivolgono sempre le brame,
coprendo opere turpi con apparenza bella.
Teognide (Theognis), trad. Ettore Romagnoli,
“I poeti della Antologia Palatina”, Zanichelli, Bologna 1962
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ESPERO
Ĉe la homoj restis sole la Esper’ el gento ĉiela,
la ceteraj jam foriris ĉiom al la alta Olimp’.
For jam la Fidel’ potenca, iris for la Puno severa,
la Graciojn jam, amiko, vane vi serĉas sur la ter’.
Ja eĉ la plej sanktaj ĵuroj inter homoj plu ne validas,
kaj nek pens’ pri senmortuloj vivas en homoj jam, nek tim’.
Jes, la gento de piuloj jam elmortis, kaj honoratas
nek ordono de la leĝo, nek la sanktigita kutim’.
Sed dum vivas vi kaj povas alrigardi la sunolumon,
kroĉu vin al la Espero, firme fidante kroĉu vin,
kaj se vi bruligas dum la preĝo bonodoran oferon,
la komenc’ kaj fino estu ĉiam ofero al Esper’.
Theognis, trad. Kálmán Kalocsay
(“Eterna bukedo”, Literatura Mondo, Budapest 1931, p 18;
“Tutmonda sonoro”, HEF, Budapest 1981, I, p. 68-69)