Il Parco Letterario “Isabella Morra” di Valsinni (Matera)
organizza, nel corso di ogni anno, varie manifestazioni per ricordare la poetessa Isabella di Morra (circa 1520 – circa 1548)
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uccisa dai fratelli per vendicare il “disonore” di una sua illecita relazione con un uomo sposato, il nobile spagnolo (anche lui poeta) Diego Sandoval de Castro, ugualmente ucciso.
In occasione del processo che fu instaurato per l’assassinio del nobile, furono rinvenute e sequestrate alcune poesie (dieci sonetti e tre canzoni) della giovane, la quale, di fatto segregata dai fratelli nel castello di famiglia, trovava nella poesia il conforto alla sua solitudine, tanto più pesante perché si trattava di una donna, per giunta di una delle zone più arretrate del meridione d’Italia; basti pensare, per capire le condizioni di quell’epoca storica e di quei luoghi, che le indagini furono attivamente espletate per l’assassinio dell’uomo, non anche per quello della donna, sia perché l’uomo era un nobile e per di più della nazione spagnola dominante, sia perché allora il cosiddetto “delitto d’onore” era giustificato – e perfino “preteso” – dal sentimento comune
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(Del resto, fino al 1981 in Italia la legge stessa puniva il “delitto d’onore con una pena minima, da tre a sette anni di carcere).
Poco dopo la morte di Isabella, il libraio napoletano Marcantonio Passero scoprì per caso le poesie, e le affidò per la pubblicazione allo scrittore Ludovico Dolce, il quale le inserì in un libro (edito a Venezia nel 1552) che raccoglieva le Rime di diversi illustri signori napoletani.
Malgrado la ripubblicazione delle poesie in opere successive, Isabella di Morra rimase quasi sconosciuta fino all’inizio del secolo scorso, quando fu rivalutata dal critico Angelo de Gubernatis, che accostò la sua figura a quella di Saffo, e ne fece un simbolo delle donne vittime di violenza familiare (dove si vede che i “femminicidi” di oggi sono tutt’altro che una novità dei nostri tempi).
Il “salto di qualità” avvenne nel 1928, quando Benedetto Croce (1866-1952)
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soggiornò appositamente a Valsinni (il luogo dove si erano svolti i fatti di Isabella) per approfondire la figura della poetessa.
Ne risultò, tra l’altro, la “scoperta” di inaspettate analogie tra le poesie di Isabella ed alcuni dei più famosi componimenti di Giacomo Leopardi (1798-1837)
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In particolare, oltre ad una analoga visione pessimista, è stata notata la stretta somiglianza tra i versi di Leopardi (da “Le Ricordanze”):
«Né mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil»
e i versi di Isabella:
«fra questi aspri costumi
di gente irrazional, priva d’ingegno»,
tanto che si è pensato che Leopardi conoscesse i versi di Isabella.
Nel 2017, in occasione dell’84° Congresso italiano di Esperanto a Policoro/ Heraclea (Matera), fu pubblicata una “Lukana Antologio” (Antologia lucana), a cura di Carlo Minnaja, con traduzioni in lingua internazionale di opere di autori di quella Regione; fu così che apparve in Esperanto la poesia di Isabella “Signor, che insino a qui, tua gran mercede”, nella traduzione di Nicolino Rossi (insieme con alcune poesie di Diego Sandoval de Castro).
Trascrivo la poesia di Isabella, in italiano e in Esperanto, ed allego:
– la copertina dell’Antologia Lucana;
– un annullo postale speciale di Potenza del 9 dicembre 1978, in occasione del 7° Premio letterario “Basilicata”, con l’immagine di Isabella di Morra.
XII. SIGNOR, CHE INSINO A QUI, TUA GRAN MERCEDE
Signor, che insino a qui, tua gran mercede
con questa vista mia caduca e frale
spregiar m’hai fatto ogni beltà mortale,
fammi di tanto ben per grazia erede,
che sempre ami te sol con pura fede
e spregie per innanzi ogni altro oggetto,
con sì verace affetto,
ch’ognun m’additi per tua fida amante
in questo mondo errante,
ch’altro non è, senza il tu’ amor celeste,1
ch’un procelloso mar pien di tempeste.
Signor, che di tua man fattura sei,
ov’ogni ingegno s’affatica in vano,
ritrarre in versi il tuo bel volto umano
or sol per disfogare i desir miei,
ad altri no, ma a me sola vorrei,
ed iscolpirmi il tuo celeste velo,
qual fu quando dal Cielo
scendesti ad abitar la bassa terra
ed a tor l’uom di guerra.
Questa grazia, Signor, mi sia concessa
ch’io mostri col mio stil te a me stessa.
Signor, nel piano spazio di tua fronte
la bellezza del Ciel tutta scolpita
si scorge, e con giustizia insieme unita
de l’alta tua pietade il vivo fonte,
e le pie voglie a perdonarci pronte.
Ombre dei lumi venerandi e sacri,
di Dio bei simulacri,
ciglia, del cor fenestre, onde si mostra
l’alma salute nostra;
occhi che date al sol la vera luce,
che per voi soli a noi chiara riluce!
Signor, cogli occhi tuoi pien di salute
consoli i buoni ed ammonisci i rei
a darsi in colpa di lor falli rei;
in lor s’impara che cosa è virtute.
O mia e tutte l’altre lingue mute,
perché non dite ancor de’ suoi capelli,
tanto del sol più belli
quanto è più bello e chiaro egli del sole?
O chiome uniche e sole,
che, vibrando dal capo insino al collo,
di nuova luce se ne adorna Apollo!
Signor, da questa tua divina bocca
di perle e di rubini escon di fore
dolci parole ch’ogni afflitto core
sgombran di duolo e sol piacer vi fiocca
e di letizia eterna ogniun trabocca.
Guancie di fior celesti adorne, e piane
a le speranze umane;
corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,
a te consacro il mio:
la mente mia qual fu la tua statura
con gli occhi interni già scorge e misura.
Signor, le mani tue non dirò belle
per non scemar col nome lor beltade,
mani, che molto innanzi ad ogni etade
ci fabricâr la luna, il sol, le stelle:
se queste chiare son, quai saran elle?
Felice terra, in cui le sacre piante
stampâr tant’orme sante!
A la vaghezza del tuo bianco piede
il Ciel s’inchina e cede.
Felice lei, che con l’aurate chiome
le cinse e si scarcò de l’aspre some!
Canzon, quanto sei folle,
poi che nel mar de la beltà di Dio
con sì caldo desio
credesti entrare! Or c’hai ‘l camin smarrito,
réstati fuor, ché non ne vedi il lito.
Isabella di Morra (“Rime”)
°°°°°
XII. SINJOR’, KIU ĜIS NUN, PRO VIA GRACO
Sinjor’, kiu ĝis nun, pro via graco,
tra tiu vivo febla kaj pasema,
malŝata igis min pri l’ bel’ mortema,
hereda igu min de bono tia,
ke vin purfide amu koro mia,
ke ajnan aĵon hatu mi ĝis fino
per tia korinklino,
ke ĉiu taksu min fidelamanta
en nia mond’ fivanta,
kiu ‘stas nur sen via am’ ĉiela,
ja furioza mar’ ŝtorme kruela.
Sinjor’, kiun mem faris via mano,
pri vi klopodas vane ĉiu menso,
portreti viajn trajtojn per intenso
versa, plenum’ de mia volelano,
mi volus nur por mi, ne pro la famo,
kaj al mi skulpti vian vestan helon
sama, kiam el ĉielo
descendis vi por loĝi nian teron
forige hommizeron.
Sinjor’ al mi permesu gracon tian
al vi montri memon mian.
Sinjor’, en vasta spac’ de via frunto
la beleco ĉiela priskulptita
vidiĝas, kaj kun justec’ unuigita,
de via kompatem’ la viva fonto,
dum nin pardonas via pia prompto.
Ombroj de lumoj, sanktaj adorindoj,
de Dio belaj bildoj,
palpebroj, korfenestroj por rivelo
de nia animbelo;
okuloj, lumon veran al sun’ donaj,
al ni ĝi brilas nur tra vi imponaj.
Sinjor’, tra via okulpar’ tutsana,
konsol’ al bonaj kaj admon’ al mavaj
sin kulpigantaj pro eraroj gravaj,
ni lernas kio estas virto ama.
Ho langoj mutaj kiel mia sama,
kial ne diras vi pri harar’ lia,
pli ol la sun’ lumkria,
ĉar multe pli ol sun’ li hele belas?
Ho krinoj kiuj stelas
solaj, kvazaŭ sur kap’ vibranta krono,
per ĝi novlume pompas Apolono!
Sinjor’, de tiu via dia buŝo
el perloj kaj rubenoj fluas for
dolĉaj paroloj, kiuj de la kor’
trista suferon viŝas per ĝutuŝo
kaj per eterna drono en ĝojfluso.
Vangoj florbelaj, el ĉiel’ sindonaj
al la esperoj homaj;
al korp’ enferma Paradizon Dian
konsekras mi la mian:
mia mensa okul’ vian staturon
malkovre vidas, taksas la mezuron.
Sinjor’, ne kantos viajn manajn belojn
mi por vorte ne fuŝi ties miron,
manojn, kiuj jam antaŭ pratemp-iro
elfaris por ni lunon, sunon, stelojn;
se tiuj klaras, l’ manoj sparku helojn:
Feliĉa tero, kie l’ sanktaj plantoj
spurojn stampis en kvantoj!
Ĉe la leĝer’ de via blank’ pieda
ĉiel’ kliniĝas ceda.
Feliĉa in’, kiu per oraj haroj
tiun envolvis, lase pekofarojn!
Kanzon’, kiom vi folas,
ĉar en la maron de la Dia miro
per tioma deziro
eniri kredis! Nun perdinte l’ padon,
vi restu for, ĉar perdis vi l’ stirradon.
Isabella di Morra, trad. Nicolino Rossi
(“Lukana Antologio”, 2017, p. 15-17)